LE MIE LETTURE DI GIUGNO

Giugno è corso via velocissimo e come ogni anni mi rattrista questo passaggio fugace dai campi gialli del grano che si muove libero nel vento alla terra brulla costellata di balle ordinate che sanno di estate già piena. Ma il tempo corre e possiamo solo tentare di non rimanere indietro. Per me quest’anno giugno ha significato anche il rientro in ufficio dopo mesi di vita reclusa in casa, di riappropriazione di ritmi che non sono miei, ma che la società (e il mondo del lavoro) mi impone e così anche il tempo, ma anche l’attenzione, per leggere ne hanno risentito. Dalle lunghe immersioni in pagine su pagine di marzo, aprile e maggio, mi sono trovata a trascinarmi libri scorrevoli, appasionanti e a volte anche indimenticabili. Tra le letture devo annoverare anche un abbandono più che prematuro, nonostate l’attesa fosse grande, ma l’impatto, direi quasi a pelle, con lo stile più che peculiare dell’autrice mi hanno spento ogni entusiasmo neanche a pagina 40. Si tratta di Acquadolce di Akwaeke Emezi (Il Saggiatore), che so che è stato apprezzato da molti, ma evidentemente non fa per me, non ora almeno.
Ma vediamo cosa ho efettivamente letto!

Dino Buzzati
Un amore
Mondadori
14.00€
Pian piano inizio a scoprire i racconti di Buzzati, che riescono sempre a sorprendermi per la loro capacità di prlare di così tante cose in poche pagine, sempre con una profondità da lasciare a bocca aperta. Continuo però a conoscere molto poco i suoi romanzi, fatta eccezione per una lettura decisamente troppo precoce de Il deserto dei Tartari, che ancora adolescente faticai non poco a finire e che prima o poi dovrò riprendere in mano con l’attenzione che sicuramente merita.
Giugno mi ha però regalato un’altra piacevole sorpresa che attendeva da un po’ a scaffale.
Un amore, quello di Dorigo per Laide, sofferto e ossessivo, ambientato nella Milano degli anni ’60, in cui la divisione tra donne per bene da sposare e donne di malaffare con cui soddisfare i propri bisogni senza impegni e responsabilità è fortissima. Lui architetto di mezza età, borghese e scapolo, lei una giovanissima prostituta dei bassi fondi, di cui sappiamo tutto o forse non sappiamo proprio niente, a seconda della versione alla quale vogliamo credere. Ma non siamo a Hollywood e questo non è Pretty Woman (forse ricorda un po’ di più Lolita). Questo amore in realtà fa acqua da molte parti, costruito su un cospicuo scambio di denaro, sulla disparità di età, ruoli, genere, ceto sociale e aspettative, su un gioco sottile tra verità e menzogna. Buzzati riesce a farci solidarizzare con Dorigo e con i suoi patimenti, le gelosie, i dubbi, il bisogno di conferme e di attenzione, facendo passare in secondo piano la somma che ogni settimana passa alla sua Laide, in cambio del tempo trascorso insieme. Fin quasi alla fine la ragazza passa per quella da rimproverare, viziata, bugiarda, egoista e chissà cos’altro, che tiene il protagonista sulle spine, approfittando della sua perdita di lucidità.
Fin quasi all’ultimo viene da chiedersi se Buzzati sia semplicemente figlio del suo tempo e approvi tutto questo o se stia invece costruendo qualcosa di più complesso. Con la sua solita maestria riesce infatti a stravolgere la vera natura di questo rapporto e a giustificare, agli occhi del lettore, la pretesa di Dorigo di ricevere da Laide quell’attenzione e quell’amore tipico della coppia, cosa che però loro non sono. La chiave di volta arriva a pochissime pagine dalla fine e non ve la svelerò, se non dicendo che nel ’59 (il libro verrà poi pubblicato nel 1963) Buzzati riesce a delineare un pensiero di grande sensibilità verso la donna e il suo ruolo nella società dell’epoca (e forse non solo). Una visione femminista, dunque, ma c’è di più: la nostra eroina, la combattente non è una donna qualsiasi, ma una ragazza squillo.

Roberto Camurri
Il nome della madre
NN Editore
17.00€
Un paio di anni fa ero rimasta affascinata dall’umanità e dalla poesia che avevo trovato tra le pagine di A misura d’uomo, primo romanzo di Roberto Camurri, per questo ero particolarmente curiosa di leggere la sua seconda opera. E a questo punto posso dire che le impressioni di allora sono più che confermate.
Uscito sempre per i tipi di NN Editore, anche Il nome della madre è ambientato a Fabbrico, nella campagna reggiana, un paese di provincia che ricopre un’importanza fondamentale all’interno della storia e dell’identità dei personaggi, nati e cresciuti tra le sue strade e campi. Ma non tutti sono fatti per restare, c’è chi non ce la fa e scappa, verso la città, altri paesi o chissà dove.
I protagonisti sono Pietro e suo padre Ettore, entrambi abbandonati dalla madre/moglie che a poche pagine dall’inizio del libro scompare, lasciando un vuoto dietro di sé, che i due proveranno a colmare, ognuno a modo proprio, ognuno chiuso dentro al proprio guscio. Padre e figlio vivono uno accanto all’altro, ma sono incapaci di comunicare, di esprimere il proprio dolore, di farsi domande o darsi risposte. Ettore rivede ogni giorno la moglie nello sguardo e nel viso di Pietro; non riesce a dimenticarla e intrappolato tra ricordi e rimpianti non può perdonarla ma forse non può perdonare nemmeno il figlio, per assomigliarle tanto e per rammentare, con la sola presenza, ciò che è stato. Pietro poi non vincerà mai il senso di abbandono e la mancanza di una madre che ha conosciuto solo per pochissimi mesi di vita. I due procedono a tentoni, uno cerca di fare il padre con gesti un po’ maldestri, l’altro rincorre una propria identità che sembra sfuggirgli di mano. Tutto però senza parlarsi. Il silenzio è il vero protagonista del libro, un silenzio pesante, denso, a tratti assordante, che pian piano, negli anni, innalza un muro che sembrerebbe invalicabile.
Della donna che li ha lasciati non si sa niente, quali fossero i pensieri, quali le paure e cosa l’abbia spinta via. Il lettore ne disconosce anche il nome. Nel corso della storia qualche particolare emerge, non tutti, ma non importa, non è quello il senso del libro. Non è fondamentale sapere dove o con chi sia la madre, cosa l’abbia fatta scappare. Quello che rimane è ciò che importa.
Dietro a tutto questo c’è Fabbrico e la sua campagna, con i campi, gli animali, le amicizie di una vita intera, il bar della Bice dove giovani e anziani si incontrano, annullando o quanto meno accorciando le distanze tra generazioni: una dimensione sconosciuta per chi ha vissuto sempre e solo in città.

Cingiz Ajtmatov
Melodia della terra. Giamilja
(Marcos y Marcos)
10.00€
Un libricino di appena 100 pagine, scorrevole e delicato, scritto nel 1958 dall’autore del Kirghizistan (uno di quei Paesi difficili da collocare sulla carta e che difficilmente si sono sentiti nominare) Cingiz Ajtmatov, che con grande poesia narra una storia semplice e piccola di contandini delle praterie, immersi nella routine dei lavori nei campi e nelle proprie tradizioni rurali. Un’ambientazione che per molti versi potrebbe non essere molto diversa da quella delle nostre campagne di appena una decina di anni prima. Penso ai racconti di mia nonna e i ritmi che scandiscono la giornata nella stagione del raccolto più o meno sono gli stessi. La comunità kirghisa ha però da poco lasciato la vita nomade e ne conserva ancora alcuni tratti, come la natura stessa del villaggio, organizzato in iurte.
Il racconto è in prima persona ma chi scrive, Seit, un ragazzino di un’età indefinita che potrebbe girare intorno ai 10-12 anni, non è il protagonista della storia. Giamilja è una giovane donna sposata, il cui marito si trova in guerra, mentre lei vive con la famiglia di lui che, secondo la tradizione, è in realtà costituita da due nuclei familiari, con un capofamiglia sposato a due donne, ognuna con la propria progenie, ognuna sistemata in una tenda indipendente, ma l’una accanto all’altra. Seit è il giovane cognato di Giamilja e assiste in disparte all’amore che pian piano nasce e poi sboccia esurberante tra la ragazza e Danijar, timido, solitario, emigrato in kazakistan da piccolo e da poco tornato al villaggio.
Una lettura veloce, pulita, forse non particolarmente incisiva, ma certamente interessante.
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