UMAMI
Scheda del libro
TITOLO: Umami
AUTORE: Laia Jufresa
EDITORE: Edizioni Sur
ANNO: 2015
PAESE: Messico
TRAMA: Città del Messico, Villa Campanario è un comprensorio di cinque case dai nomi bizzarri (Dolce, Amaro, Acido, Salato e Umami) e i suoi abitanti nascondono tutti una certa dose di follia.
Le mie riflessioni
Un libro di piacevole lettura, non c’è che dire, e personalmente me lo sono goduto in lingua originale, incespicando qua e là per il vocabolario messicano. Fortunatamente la funzione “dizionario” del Kindle mi ha salvata, facendomi ritrovare la scorrevolezza del libro d’esordio di Laia Jufresa.
Quattro abitanti di Villa Campanario narrano la propria storia, ognuno dall’anno per se stesso più significativo tra il 2000 e il 2004, l’anno che ha cambiato per sempre il corso della loro vita.
2004: Ana, 12 anni, figlia di due musicisti e terza di quattro fratelli. Quell’estate decide di piantare una milpa (un sistema di coltura ecologia tipica dell’America Centrale e che prevede la coltivazione del mais, dei fagioli e della zucca sullo stesso terreno) nel suo cortile, anziché andare al campo estivo come tutte le altre estati.
2003: Marina, giovane e con tendenze anoressiche. Vuole diventare artista e nel frattempo inventa nomi di colori.
2002: Alfonso, antropologo. Un anno fa ha perso la moglie a causa del cancro e ora scrive una sorta di diario con Nina Simone, il computer che l’Università gli ha mandato per convincerlo a prendersi un anno sabbatico.
2001: Luz, 5 anni e mezzo, la più piccola della famiglia, sorella di Ana. È al campo estivo con la madre e i fratelli, a casa della compagna del nonno.
2000: Pina, coetanea di Ana. Sua madre, Chela, se n’è andata lasciandola sola con il padre, Beto.
Chi ha perso una figlia, chi una sorella, chi ancora la moglie; chi non ha mai avuto nessuno o chi una madre ce l’ha ma chissà dove. Il tema della morte è centrale, ma è strettamente correlato a quello dell’abbandono che a sua volta porta i personaggi a una grande solitudine.
Apparentemente si potrebbe pensare che si tratti di un libro triste, doloroso, ma non è così. È trascorso un po’ di tempo da quando ognuno ha vissuto la propria perdita ed è quindi passata la fase del dolore più intenso, quello che pare accoltellarti le viscere al solo respirare. Ora l’assenza della persona persa è diventata quasi un’abitudine e, per quanto rattristi, si è imparato a conviverci. È subentrata una sorta di accettazione, seppur debole. Ci si arrabatta in questa nuova vita più vuota, più solitaria e si trovano nuovi equilibri, che talvolta arrivano grazie a qualche parola scambiata con il vicino al bar, da un progetto agricolo nel patio di casa o da un computer portatile che risponde al nome bizzarro di Nina Simone.
Personaggi egocentrici, per non dire folli, alcuni simpatici, altri dalle scelte alquanto discutibili e che portano inevitabilmente sofferenza a chi gravita intorno a loro. Le loro storie si intrecciano tutte, andando a formare un unico racconto, che si regge in piedi secondo un’impalcatura che si assomiglia molto alla struttura architettonica di Villa Campanario. Cinque appartamenti, che portano ognuno il nome di uno dei gusti fondamentali: amaro, dolce, aspro, salato e umami, che in lingua giapponese significa saporito ed è qui associato a quel gusto in più che rende i cibi speciali, ma che Alfonso non non può fare a meno di applicare anche alla vita e ai suoi avvenimenti.
Un romanzo gradevole, anche se a lettura compiuta mi sono chiesta quanto mi rimarrà… diciamo tra due o tre mesi e temo che sarà poco, forse pochissimo. Senza sapere bene perché mi è venuto da associarlo a L’inconfondibile tristezza della torta al limone di Aimee Bender, un libro che ho adorato ancora prima di acquistare, indubbiamente catturata dalla copertina, che ho letto volentieri e che ricordo essermi piaciuto abbastanza, ma che qualche anno dopo non saprei neanche dire di cosa parli. Ecco, temo che succederà un’altra volta, anche se non c’è che dire, Laia Jufresa condisce con umami persino le pagine del suo libro.
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